Iniziative

incontro con Luciano Canova – l’economia della felicità – nuovi indicatori di qualità della vita

Prosegue il ciclo di incontri promossi dal Coordinamento Gruppo Giovani di Como dedicati a innovazione, economia e società.
Incontro con l’economista e scrittore LUCIANO CANOVA L’ECONOMIA DELLA FELICITA’ – NUOVI INDICATORI DI QUALITA’ DELLA VITA

“Essere felici è l’obiettivo di ogni persona il che, naturalmente, porta un governo o un’istituzione a porsi come obiettivo quello di raggiungere il massimo livello di felicità per tutti.
Come, però, misurare la felicità, è questione più complessa, proprio perché si tratta di un concetto complesso: la felicità è un ombrello sotto il quale, tradizionalmente, stanno tante dimensioni.
L’indicatore tradizionale che misura il benessere di una persona e, di conseguenza, la sua felicità, è il reddito che, considerato a livello aggregato, diventa il Prodotto Interno Lordo.
E’ una statistica molto importante e vale la pena illustrarne pro e contro.
Accanto e oltre al reddito, però, esistono molteplici altri indicatori e molte misure della felicità.
L’economia della felicità si preoccupa, appunto, di indagare come si misura il benessere per il disegno di una società migliore.
Come dice Amartya Sen, premio Nobel per l’economia 1998, la scelta di un indicatore di misurazione del benessere influenza il modo stesso in cui funziona una società.”

Economia della Felicità

Grazie alla disponibilità di informazioni raccolte da sociologi e psicologi, alcuni economisti si sono interessati a studiare e comparare il benessere e la felicità degli individui sconvolgendo radicalmente il tradizionale assunto che l’aumento della ricchezza, sia delle nazioni che degli individui, attraverso il libero mercato, sia sufficiente a garantire un proporzionale aumento della felicità, o quantomeno a non provocarne la diminuzione. Uno dei risultati più interessanti che emerge dalle ricerche economiche sulla felicità, è che nel lungo periodo mentre il reddito pro capite aumenta costantemente, la felicità rimane sostanzialmente invariata. I dati provengono dalle indagini Eurostat-Eurobarometro e coprono il periodo dal 1975 al 1992. Nonostante le molte oscillazioni, la soddisfazione media riportata dagli europei era, nel 1992, praticamente allo stesso livello di 20 anni prima, a fronte di un considerevole aumento del reddito pro capite nello stesso periodo. Risultati molto simili si ottengono anche per gli Stati Uniti. Questi dati sollevano naturalmente molti dubbi sulla loro qualità e tuttavia, senza entrare nel dettaglio, numerosi studi provenienti da altre discipline come la psicologia e la neurologia ne supportano l’attendibilità. Citiamo solo la critica che a noi pare più comune e che si potrebbe formulare come segue: in realtà ognuno si dichiara soddisfatto in relazione a ciò che può realisticamente ottenere, di conseguenza oggi siamo effettivamente più felici di 20 anni fa ma non ci riteniamo tali perché le nostre aspettative sono cambiate, migliorate, e desideriamo sempre di più. Esistono diverse risposte a questa critica. In primo luogo, se così fosse, almeno persone nate negli stessi anni dovrebbero mostrare una crescita nel tempo della felicità riportata soggettivamente. I dati mostrano invece che, anche suddividendo il campione per coorti di nascita, la felicità riportata non cresce significativamente nel tempo. Inoltre, misure meno soggettive del benessere, come la percentuale di persone affette da depressione o il numero di suicidi, seguono andamenti molto simili alle risposte soggettive sulla felicità e sulla soddisfazione. Ma allora cosa ci rende felici? Studi che confrontano felicità e soddisfazione di persone simili indicano, con tutte le riserve del caso, che sono molte le fonti di felicità e infelicità: gli occupati sono molto più felici dei disoccupati, la sicurezza del posto di lavoro rende meno stressati e più felici, chi ha una famiglia stabile è più felice dei separati/divorziati, ma anche vivere in una città con poca povertà e poche disuguaglianze sembra rendere più felici.
La definizione marcusiano-francofortese di “società dei consumi” è ormai antica, così antica da lasciarci intendere che il sistema è più che maturo, e probabilmente invecchiato al punto di mostrare le prime, pesanti crepe. Ampiamente accertato, dalle analisi sociologiche come dalla vox populi, che la povertà rende infelici, esposti al bisogno, meno liberi e meno energici, e dunque lasciato alle retroguardie moraliste il dubbio piacere di tuonare contro il benessere materiale, il dibattito sulla ricchezza, e sul suo incerto rapporto con la felicità, non è più così elitario o “di opposizione”. Questa è la novità. Non sono più i vecchi hippies o i giovani new global a puntare il dito contro la giustapposizione acritica tra benessere materiale e felicità. È lo sguardo razionale degli economisti, adesso, che cerca faticosamente i nessi, e le sconnessioni, tra il Pil e la soddisfazione sociale, tra il trend quantitativo dei consumi e la qualità della vita individuale. E si espande il nucleo critico (ormai una minoranza di massa) di singole persone e gruppi sociali che inseguono prassi di vita meno febbrili e meno assoggettate alla bulimia delle merci. Convegni accademici e confessioni private, libri e indagini, teorie scientifiche e osservazione empirica, tutto conduce in una sola direzione, o verso una stessa risposta: felicità è partecipazione, in tutte le gradazioni, dalla mobilitazione politica alle minute attività di quartiere. Se una disciplina ormai trentennale come l'”economia della felicità” conosce una ragguardevole impennata di pubblicazioni e di dibattito, è anche perché cresce la consapevolezza diffusa che non c’è, o non c’è più, felicità attraverso gli ormai consunti parametri privatistici e quantitativi.
Se la semplice sopravvivenza e il riparo dalle sofferenze, e non certo la felicità, sono stati per gran parte della storia lo scopo principale della vita umana (Zygmunt Bauman), è solo con la Dichiarazione d’indipendenza della Virginia nel 1776 che la felicità è divenuta, da bene di lusso elitario quale era, un diritto universale. Il desiderio, la spinta verso la felicità sono negli Stati Uniti un diritto costituzionale, ma anche un dovere che sta al cuore dell’American Dream (diceva Samuel Johnson: “La vita è un progresso da desiderio a desiderio, non da piacere a piacere”): ed è sempre lì che sta avvenendo una rivoluzione profonda. Al differimento costante della felicità (sia le utopie sia il mai concluso progresso scientifico rimandano a un mondo ideale sempre futuro), l’età contemporanea, massimamente nel suo prototipo americano, ha risposto con il consumismo: il godimento (individuale) del piacere effimero e ripetibile del consumo ha soppiantato la costruzione (collettiva) di una vita felice. Ma in attesa di un mondo migliore, abbiamo distrutto questo per ipertrofia consumistica. Così, si è sviluppato negli ultimi anni un filone ipercritico di “etnografia dell’eccesso”: qualche titolo (“The Overspent American” di Juliet Schor, “Luxury Fever” di Robert Frank, ma anche “Fast Food Nation” di Eric Schosser e “The Influentials: One American in Ten Tells the Other Nine How to Vote, Where to Eat, and What to Buy”) e un solo dato (gli Stati Uniti spendono in soli sacchetti per l’immondizia più di quanto in 90 altri paesi si spende per tutte le merci), bastano a riassumere la questione. Che ora si sta spostando rapidamente sul piano dei comportamenti e dei valori, fino a ridefinire i principi stessi dell’American Dream, a partire da quella fascia di “trendsetter” che già da qualche decennio è stata definita come gli “Influentials”. Ovvero quella fetta della popolazione – 21 milioni di persone, un americano su dieci – che guida le idee, i comportamenti e lo stile di vita degli altri nove decimi del paese.
L’economia moderna nasce proprio con la felicità. Infatti, la tradizione italiana dell’economia, milanese e napoletana in modo particolare, nella seconda metà del settecento scelsero la felicità come concetto centrale della nascente scienza economica. La felicità era però pubblica (quindi da non confondere con il piacere o la contentezza momentanea), non solo perché il compito di creare le condizioni per la felicità era affidato anche ai governanti, ma perché, come dicevano, posso essere ricco anche da solo, ma per essere felici occorre essere almeno in due, perché si è felici grazie e con gli altri. La tradizione napoletana – pensiamo a Vico o a Genovesi – era profondamente radicata nel messaggio cristiano. Ma possiamo ritrovare il collegamento tra economia e felicità nell’Umanesimo Civile, nella Scuola Francescana, e anche in molta parte della riflessione del monachesimo, e, andando più indietro nel tempo, anche la prima riflessione dei Padri aveva attribuito molta importanza al rapporto tra beni e ben-essere, alle condizioni che fanno sì che i beni, la ricchezza, siano mezzi per una vita buona. Dopo l’Illuminismo forse l’attenzione al rapporto tra economia e felicità è rimasta sullo sfondo anche della riflessione degli economisti cristiani, ma ultimamente l’interesse sta tornando con forza. La scienza economica ufficiale non ha continuato la tradizione italiana, più antica, e si è concentrata sulla ricchezza della nazione, e in particolare su come aumentarla (divisione del lavoro, commercio internazionale) e come distribuirla tra le classi sociali. Forse per questo motivo, attorno alla metà del 1800, si è meritata l’appellativo di scienza triste (dismal science), coniato dallo scrittore inglese T. Carlyle. Se però guardiamo più in profondità ci accorgiamo che questo appellativo è in parte ingiusto: in molti del primi economisti inglesi (certamente Smith e Malthus) era molto chiaro che la ricchezza è solo un mezzo per vivere meglio: e in un mondo che cercava ancora di uscire dall’estrema povertà questa tesi è probabilmente vera. Nel mio libro ho cercato così di mostrare che non solo a Napoli e in Italia, ma anche in Inghilterra c’è una tradizione dell’economia (che arriva fino al Novecento) che distingueva molto bene i mezzi (ricchezza) dai fini (felicità), e che si interessava anche dell’analisi di cosa accade quando ci concentriamo troppo sui mezzi e li facciamo diventare fini, e quindi ci inganniamo. Ciò che emerge dalle ricerche su reddito e felicità mostra un quadro più complesso del proverbio, e dei suoi critici. Innanzitutto tutte le culture sanno che il denaro, da solo, non può dare felicità: se c’è un icona della non-felicità questa è probabilmente l’avaro. Ma perché l’avaro non è felice? Perché, anche senza accorgersene, trasforma il mezzo (denaro) in fine, e fa dell’accumulazione del denaro lo scopo principale della sua vita; una vita che poi non fiorisce, e si chiude su se stessa. Al di fuori dell’avarizia, il denaro può portare a più felicità: non occorrono molti studi per capire che quando si è nell’estrema povertà un maggior reddito porta ad una vita migliore e più felice. Ciò non è sempre vero (dipende da come quel reddito aumenta), ma i dati mostrano che in media è così. C’è però una soglia, un punto critico superato il quale il rapporto virtuoso reddito-felicità si inverte e può diventare vizioso. Perché? Non è facile accorgersi quando stiamo per oltrepassare quel punto critico (ad esempio se stiamo lavorando troppo), perché siamo sottoposti a diverse forme di inganno della nostra razionalità.
L’interesse per l’economia della felicità è dovuto, credo, a due ordini di ragioni. Innanzitutto il processo non è partito all’interno della scienza economica: gli economisti sono stati contaminati dagli psicologi e in parte dai sociologi, che nei primi anni settanta cominciarono a riportare dati sperimentali che mostravano il paradosso della felicità, e cioè che il reddito sembrava essere molto poco correlato alla felicità, almeno nelle società più ricche (Usa e Europa). Da qui la sfida di quei primi psicologi: perché preoccuparsi troppo dell’aumento del reddito, del Pil (prodotto interno lordo), se questo non ci fa star meglio, ma addirittura peggio? Da queste indagini sono nate due correnti di studi tra gli economisti: da una parte coloro che hanno sviluppato nuove teorie economiche per spiegare quel paradosso (e questo è il filone principale), dall’altra chi invece, forse per un richiamo ancestrale ai primordi della scienza economica, sente di dover mostrare che lo studio per aumentare la ricchezza o il benessere materiale è ancora oggi importante, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Questo secondo filone ha come leader l’economista indiano Amartyia Sen, che sostiene che il sentirsi soggettivamente felice è meno importante della felicità oggettiva, cioè alla qualità della vita che la gente di fatto sperimenta (salute, educazione, libertà, diritti, etc.).
L’economia come sviluppo di una riflessione sulla propria identità, si sta accorgendo che ci sono troppi fenomeni economici importanti che le sfuggono se non diventa più relazionale. Oggi il bene scarso – da sempre l’oggetto della scienza economica – sono anche (e forse soprattutto) i rapporti interpersonali genuini, e se l’economia resta ideologicamente ancorata ad un idea di individuo solipsista e autointeressato rischia di perdere il contatto con dinamiche sociali molto importanti, come il movimento dell’economia sociale o civile, il funzionamento delle organizzazioni, o il rapporto reddito-felicità. In questo senso il volume curato da Benedetto Gui e Robert Sugden, Economics and Social interaction (Cambridge University Press, in corso di pubblicazione), può rappresentare un momento significativo. In secondo luogo, si sta assistendo ad un nuova ricerca di unità tra le diverse scienze. Dopo l’Illuminismo ogni disciplina ha voluto studiare, indipendentemente, il suo pezzo della vita sociale: economia, sociologia, psicologia, ecc. Questo ha portato a frutti enormi nel campo tecnico e scientifico, ma ha anche fatto sì che nessuna disciplina, da sola, ha più il linguaggio per comprendere e descrivere i fenomeni sociali nella loro complessità. Negli ultimi anni è invece forte l’esigenza di arrivare ad una scienza sociale unificata che, arricchita dalla diversità, porti ad una nuova comprensione della società. Il dipartimento di Economia Politica (Milano-Bicocca) ha dato vita ad un centro interdipartimentale (Ciseps) per lo studio del benessere, del comportamento e della razionalità, dove studiosi di diverse discipline lavoriamo assieme per dare un nostro contributo ad un nuovo linguaggio che complichi l’idea di comportamento che ogni singola disciplina ha nella sua storia sviluppato ma necessariamente semplificato. Psicologi, sociologi, filosofi ed economisti, in dialogo alla ricerca di un nuovo paradigma interdisciplinare e relazionale, per dar conto di quel qualcosa di costitutivamente relazionale, e paradossale, che è la felicità.

Il rapporto fra ricchezza e successo è già cambiato. I loro valori, dichiarati e praticati, sono i forti rapporti personali (familiari, amorosi, di amicizia, professionali), l’integrità dell’individuo (l’onestà, il rispetto per se stessi) e l’esplorazione (nel senso di curiosità, creatività, apertura intellettuale, cultura). In fondo all’elenco delle priorità ci sono il far colpo sugli altri, la ricchezza, l’aspetto esteriore e il potere. Per loro, il denaro significa libertà e sicurezza, non status. Non è la ricchezza a dare felicità, semmai è la felicità, privata e comunitaria, a favorire il raggiungimento della ricchezza. La scala dei valori si è già ribaltata. Altrettanto reciso e quasi corale è il “no” degli economisti. La prima crepa risale addirittura al 1974, con il cosiddetto “paradosso di Easterlin”: poiché ciascuno valuta se stesso in paragone con gli altri, un aumento del reddito (e dei consumi) non può produrre un proporzionale aumento della soddisfazione e del benessere. Al contrario: più abbiamo più (confrontandoci) desideriamo, e meno felici siamo. Gli scrolloni più violenti sono invece recentissimi, e provengono dall’Inghilterra. In tre conferenze sulla felicità alla London School of Economics, l’economista lord Richard Layard ha scardinato i principi fondamentali della sua stessa disciplina, sostenendo che lo scopo primario delle politiche pubbliche deve essere la ricerca della felicità, che la felicità individuale (come sostenevano gli utilitaristi di Bentham) è misurabile, e che entrano i gioco fattori non quantitativi come la sicurezza, la stabilità, la piena occupazione, un servizio sanitario efficiente, sereni rapporti personali. Una buona legislazione sul divorzio o sulle abitazioni è più importante del reddito. Intanto all’Università di Warwick il professor Andrew Oswald, anche lui economista, ha stabilito quali aumenti di reddito sarebbero necessari per compensare la mancanza di alcuni fattori di felicità personale (100 mila dollari per la mancanza di un buon matrimonio, 245 mila per la vedovanza, 60 mila per la perdita del lavoro), ha stabilito che le donne sono più felici degli uomini e i trentenni i più infelici di tutti, concludendo che alla domanda: “I soldi danno la felicità?”, la risposta è un sovversivo “sì, ma”. Sì, ma non proporzionalmente: anzi, come spiega Luigino Bruni dell’Università di Milano-Bicocca, “avere più reddito sembra rendere le persone più infelici”. Sì, ma non prevedibilmente: perché (a integrare con variabili non economiche intervengono Bruno Frey, Amartya Sen, Richard Easterlin, Stefano Pettinato, Robert Lane, Martha Nussbaum) entrano in gioco fattori come lo status lavorativo, la libertà, l’uguaglianza, la vita associativa, i rapporti interpersonali. Ovvero altri beni, non quelli di consumo, ma quelli relazionali. Non si vive di sola economia, neanche nelle scienze economiche: la parola “felicità” è un talismano teorico che sconvolge le antiche certezze. Il più lapidario è il premio Nobel Amartya Sen: “Il puro uomo economico è in effetti assai vicino all’idiota sociale”. E il più sconfortato è Oswald: “La maledizione dell’umanità è sentirsi costretti a guardare sempre l’erba del vicino. Siamo consumati dal relativismo”. Consumatori consumati. A meno di non sfuggire alla “maledizione”. Negando che la ricerca della felicità sia un valore universale, come fa lo psicologo Ed Diener (che insegna “Subjective well-being” all’Università dell’Illinois) sulla base di studi comparativi fra culture occidentale e orientali (“Se dici a un coreano che hai divorziato perché eri infelice con tua moglie e non la amavi più, ti prende per pazzo”). Cercando la “Formula della felicità” (Longanesi) in un equilibrio tra filosofia di vita e attività cerebrale, come fa il biofisico tedesco Stefan Klein in un saggio con 20 pagine di bibliografia. Oppure spostando il pendolo dei valori e della soddisfazione verso la sfera pubblica. È l’oscillazione individuata da Albert O. Hirschman già una ventina di anni fa in “Felicità privata e felicità pubblica”. Alla base sono i meccanismi dello scontento e del benessere, non i comportamenti dell’ipotetico “soggetto razionale” finora privilegiato dalla teoria economica. Una conferma tutta italiana viene dall’indagine su “Gli italiani e lo Stato” che Ilvo Diamanti conduce per la Demos da ormai sei anni. Dopo un lungo periodo, dalla metà degli anni ’70 alla fine del ’90, in cui sono prevalsi gli indicatori del privato e della soggettività (il culto dell’impresa, la mistica dell’individuo, l’edonismo), il ciclo della felicità privata si è concluso. È un cambiamento profondo, nel quale la sfiducia nel privato (le imprese, il credito) precede e provoca l’aumento di fiducia nel pubblico, nella partecipazione, e il ritorno in proscenio di questioni tutt’altro che private (dalla pace alle pensioni all’articolo 18). In un anno il tasso di protesta con pubblica mobilitazione è stato più alto che in tutto il precedente. È una svolta, è una domanda di nuova felicità.